Il mito del costo dell’accessibilità e altre balle

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e aggiornato il 22 Febbraio 2023

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Questo è un articolo livoroso, pieno di pregiudizi e politicamente scorretto, scritto da uno che per vent’anni si è occupato di accessibilità digitale ed è stanco di sentire le solite balle. Colonna sonora: Kamakiriad, Morph The Cat e The Nightfly di Donald Fagen.

Qualsiasi designer che lavori nel mondo digitale italiano, un mondo che ha sempre un certo ritardo, come i treni negli anni Ottanta — sa che nessuno fa davvero human-centered design, pratichiamo tutti quello che definisco manager-centered design. Altro che progettazione centrata sull’utente, è una prassi centrata sull’ego. Alcuni colleghi, specialmente i vertici della catena alimentare aziendale, sembrano affetti da un tale complesso di inferiorità creativa che mi ricorda gli inizi della carriera da pittore di Hitler.

Si potrebbe dire che il collega sta al designer, come il terrapiattista sta all’astrofisico.

Questo perché In Italia sono tutti designer, dal panettiere al Presidente. Ne abbiamo pure avuto uno, di presidenti, che disegnava i loghi (questa la capiranno solo i miei coetanei). È come se l’Italia fosse un esperimento su scala nazionale dell’Effetto Dunning-Kruger. Se, poi, proponi a una di queste meraviglie del darwinismo sociale di fare un po’ di ricerca sul campo, la risposta è di non rompere le balle, ché loro sanno cosa vuole il cliente, mica te, che sei un fighetto. E, poi, il time to market dove lo metti? Su, su ché abbiamo fretta! È a quel punto che vorresti una mazza ferrata medioevale a portata di mano.

Rispetto al tema dell’accessibilità digitale l’ignoranza aziendale è notevole. Ma non si tratta solo di ignoranza, è soprattutto incapacità di visione a lungo termine. Queste persone pensano che progettare software, siti web e servizi accessibili sia una sorta di penitenza filantropica. Una specie di attività pro-bono dedicata a una minoranza di cittadini improduttivi che, al massimo, da qualche vantaggio di immagine.

Per onestà intellettuale devo dire che non è solo colpa loro. La narrativa dei media e la retorica politica su questi temi sono ferme a una definizione di disabilità che sarebbe stata perfetta negli anni ’30 del secolo scorso. Le statistiche sulla disabilità sono fuorvianti e imprecise, per stessa ammissione di chi le produce.1 Difficile, poi, parlare seriamente di human functioning e ICF con chi crede che la disabilità sia un problema altrui.

Disabilità temporanee, malattie croniche o i normali cambiamenti a livello di abilità sensoriale e motoria di chi invecchia, sono esempi di fattori che non sono considerati nelle statistiche sulla disabilità. Il funzionamento umano è un tema che tocca tutta l’umanità, inclusi tutti i clienti di un’azienda.

Poi c’è la seconda balla: l’accessibilità è un costo.

L’accessibilità è un costo solo quando sei costretto a fare retrofitting perché il tuo prodotto fa schifo. Le scuse basate sulla sostenibilità economica sono patetiche. La responsabilità di quel “costo” è di chi sceglie se includere o meno l’accessibilità nel flusso di lavoro fin dall’inizio. Se un’applicazione che hai progettato non è accessibile, non puoi incolpare gli altri. Non stiamo parlando di fisica quantistica, il tempo impiegato a scrivere codice spazzatura è equivalente a quello che si impiegherebbe a scrivere codice accessibile. È una scelta.

È una precisa scelta manageriale implementare strategie di product management che includano l’accessibilità e formare i programmatori e i grafici. Sul serio pensi che un prodotto non accessibile possa essere usabile? Hai calcolato l’impatto del customer support? Quello si che è un costo che paghi se progetti prodotti scadenti. Pianificare è il lavoro del manager, se non sei in grado di farlo datti all’ippica.

Veniamo ora alla scusa più irritante: il time to market (TTM).

Cos’è il TTM? È il periodo che intercorre tra il concepimento di una nuova idea e il rilascio sul mercato del prodotto. Chi entra per primo sul mercato con una nuova idea ha, chiaramente, una serie di vantaggi competitivi. Il TTM è usato spesso dai manager meno competenti come scusa per tagliare la qualità, in particolare aspetti come l’accessibilità, che sono stupidamente considerati secondari o, addirittura, velleitari. Perché? Perché non c’è tempo, dobbiamo arrivare sul mercato prima della concorrenza. Il bello è che te lo dicono anche quando il quoziente di innovazione del prodotto è al livello “acqua calda”, volete arrivare primi con la scoperta dell’acqua calda?

Il TTM non c’entra nulla con l’accessibilità. L’accessibilità non è una “funzionalità” di un prodotto, è una competenza di base che i designer e i programmatori possiedono e usano se glielo lasci fare. È nella loro cassetta degli attrezzi. L’accessibilità non è un accessorio secondario, non è una caratteristica fighetta che puoi anche aggiungere al centesimo sprint. Se costruisci una casa con mattoni di sterco, poi non puoi lamentarti se puzza. Inoltre, anche se vinci la gara del TTM, ma metti sul mercato un prodotto scadente, che cosa avrai vinto se non un tasso di abbandono imbarazzante e dei costi di retrofitting insostenibili? Ma che vuoi che ne sappia io.

  1. L’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), nell’introduzione all’e-book «Conoscere il mondo della disabilità: persone, relazioni e istituzioni», afferma che è difficile tradurre la definizione di disabilità in un insieme di condizioni rilevabili statisticamente.