Questo è un manifesto senza pretese, mi accontento della decenza. Figurati che alla base di queste idee c’è il costruttivismo, roba vecchia. Ma tant’è la formazione aziendale, ammettiamolo, fa così schifo che anche uno ignorante come me può provare a dire la sua.
L’ho scritto ascoltando The Madness Of Many e The Joy of Motion degli Animals As Leaders. Mentre lo aggiornavo ho ascoltato Blue Bell Knoll dei Cocteau Twins e la discografia dei New Spell.
- Acquisire nuove competenze e crescere dal punto di vista delle proprie conoscenze tecniche, culturali e umane, è un diritto fondamentale di ogni persona. È un diritto anche non crescere, non evolversi. Se costringi le persone ad adeguarsi alla tua visione del mondo stai facendo loro una violenza. Credere di sapere cosa sia meglio per gli altri è pura arroganza.
- La formazione aziendale deve essere basata sulla collaborazione. Le persone, indipendentemente dal loro ruolo aziendale, imparano condividendo competenze in uno spazio di co-creazione paritario. Per questo affidare tutta la formazione a istituzioni e consulenti esterni è un errore. Ci sono più competenze nascoste in azienda di quante ne abbia qualsiasi entità esterna.
- Le persone devono avere accesso a strumenti che consentano di progettare il proprio percorso di crescita sulla base di obiettivi e necessità personali, per realizzarsi non per conformarsi.
- La formazione dei dipendenti è un investimento fondamentale per qualsiasi azienda, questo perché sono le persone che determinano il valore di un’organizzazione, non la speculazione o un top manager. Quindi la formazione non passa in secondo piano rispetto alle altre priorità ed è finanziata adeguatamente.
- Le differenze individuali nello stile relazionale e nei modelli mentali di apprendimento sono rispettate e non considerate uno stigma o un limite. Sono gli strumenti e i programmi formativi a doversi adattare alle persone e non viceversa.
- I corsi o seminari aziendali dovrebbero comprendere anche materie umanistiche o, in generale, argomenti non tradizionalmente legati alle competenze tecniche tipicamente associate a un dato ruolo aziendale. Per esempio, io credo sia ridicolo progettare le intenzioni di un chatbot senza avere studiato almeno un po’ di linguistica e filosofia della mente. O progettare l’interfaccia di un software gestionale senza conoscere psicologia ed ergonomia.
- Lo scopo della formazione non è solo la crescita verticale su una singola professionalità ma, al contrario, l’acquisizione di conoscenze e competenze trasversali che stimolino l’intelligenza fluida e il pensiero controfattuale, divergente e creativo.
Una proposta concreta
Alzi la mano chi ha provato almeno una volta nella vita la tortura di una videolezione in e-learning. Magari uno di quei corsi aziendali obbligatori erogati su piattaforme digitali imbarazzanti con video registrati nel secolo scorso da attori che parlano come le sintesi vocali delle Ferrovie Dello Stato. Quanto è facile, se si possiede almeno un’intelligenza media, barare nei test a risposta multipla posti tra un video e l’altro? Questa non è formazione è autolesionismo.
Si ripete, nel digitale, la stessa logica piramidale e monodirezionale della formazione tradizionale, per esempio quella universitaria. Non c’è collaborazione ma broadcasting di informazioni da uno a molti, uguali per tutti. Ma noi non siamo tutti uguali.
C’è un bel libro pubblicato da Carocci nel 2005 e a cura di Valerio Eletti che racconta molto bene le peculiarità dell’e-learning e contiene una sintesi delle teorie alla base dell’apprendimento. Per esempio elenca le differenze tra andragogia (insegnare a un adulto) e pedagogia (insegnare a un bambino). La sensazione che ho, a volte, è che la formazione per gli adulti sia progettata da persone che pensano di fare pedagogia.
Da un lato ci sono il vecchio modello docente/discente, basato sul controllo, e l’autoapprendimento passivo, basato su materiali preconfezionati, nei quali è la certificazione dell’esecuzione del compito a contare e non la qualità dell’apprendimento. Dall’altro c’è il sogno dell’apprendimento collaborativo, interattivo e dinamico.
Che cosa significa apprendimento collaborativo?
L’apprendimento collaborativo, secondo Anthony Kaye, prescrive che gli individui lavorino e interagiscano per conseguire l’obiettivo comune di acquisizione della conoscenza. L’apprendimento individuale è, quindi, il risultato di un processo di gruppo.
Chiamiamolo peer learning che fa fico. Quello di cui parlo è uno scenario in cui è realizzato l’insegnamento tra pari a partire da una competenza di base comune e un obiettivo condiviso, in una dinamica di feedback continuo. L’opposto di un dipendente solitario e triste che assorbe passivamente nozioni da pacchetti preconfezionati scelti in un catalogo da supermercato della conoscenza.
Le piattaforme per la collaborazione digitale che abbiamo già a disposizione oggi (non solo quelle di e-learning, monolitiche e noiose, ma gli strumenti per il co-design come Miro, per esempio) rendono questo approccio possibile anche nella formazione a distanza. Figuriamoci, poi, se immaginiamo il prossimo futuro in cui la formazione potrà avvenire attraverso tecnologie immersive.
Ma come fare in modo che siano le persone, il gruppo dei pari, a strutturare la propria formazione?
Su questo tema io sono radicale. L’azienda stessa è la learning company e, insieme ai gruppi di lavoro, che sono direttamente coinvolti in tutte le attività di progettazione, funge anche da content provider. Se non ci sono competenze interne, è accettabile che la multimedia agency (l’azienda che realizza grafica e software dei corsi) sia esterna. Ma la strategia formativa, le attività di progettazione, i learning objects, e tutto il resto, devono essere prodotti internamente, esponendoli in un marketplace digitale accessibile a tutti (ne parlerò dopo).
Per attivare i dipendenti, e far emergere la conoscenza nascosta, quale strategia migliore del coinvolgere direttamente le persone nella progettazione della loro crescita?
Ovviamente è sempre possibile acquistare pacchetti formativi da content provider esterni, per esempio le università, se non si hanno le competenze interne. Ma, seriamente, chi è che oggi, almeno nel mondo digital, si rivolge all’università e ottiene contenuti che siano realmente correlati all’esperienza quotidiana di lavoro? Dai su, non ci credi neppure tu. L’università o, più estesamente, le istituzioni formative tradizionali, sono perfette per fornire contenuti umanistici e approfondimenti teorici autorevoli (che sono importantissimi per sviluppare competenze trasversali), ma i docenti universitari, e le loro aziende spin off di consulenza, non mi hanno mai convinto.
Come creare un sistema che consenta alle persone di costruire autonomamente il loro percorso?
Il modello “organico”
Beh, innanzitutto devo dirti che, per deformazione professionale, qualsiasi cosa io pensi la immagino implementata in una piattaforma software, magari corredata di quel po’ di machine learning (ML) sufficiente a rendere la tua esperienza più interessante e fluida.
In questo caso però è anche necessario un cambio di paradigma. Quando pensiamo alla formazione, per tradizione, ci immaginiamo un percorso verticale: si parte da zero e alla fine si diventa un “qualcosa” certificato. Questa serie di competenze in un singolo dominio definiscono la nostra identità professionale.
Chi pensa che questa idea di crescita personale verticale sia ancora sufficiente secondo me sbaglia.
Oggi, qualsiasi sia il tuo lavoro, è necessario imparare a gestire la complessità correlata alla pervasività fisica e digitale di prodotti e servizi, oltre alle implicazioni etiche della progettazione, sempre più importanti. Una competenza verticale pura, da knowledge worker degli anni Settanta, è insufficiente. Non mi riferisco solo al possesso di competenze appartenenti a domini tecnici differenti dal proprio, ma anche a competenze culturali e umanistiche.
Il punto è che un sistema che si ponga lo scopo di rendere autonomo il dipendente nella progettazione del suo percorso di crescita deve lavorare almeno su due dimensioni, una verticale e una orizzontale. E io credo che quella orizzontale sia la più importante.
Immaginiamo, quindi, una piattaforma in cui una persona possa mappare le proprie competenze e ricevere un’analisi del suo stato di crescita sulla dimensione verticale e su quella orizzontale. Il sistema potrebbe anche suggerire percorsi basandosi sulle scelte effettuate. Per poter funzionare dovrebbe attingere a un database in cui sono classificate tutte le possibili competenze. La mia idea su come classificarle è basata su una metafora biologica e su una matrice di esempio che ho creato rispetto alle professionalità di design grafico e user experience (i codici che vedrete nella tabella seguente fanno riferimento a quella matrice):
Tipo di learning object | Descrizione | Esempio |
---|---|---|
ATOMO | Una singola conoscenza autoconsistente. | USR-004: Sa registrare nel modo corretto ogni osservazione che fa sul campo. |
MOLECOLA | Una serie di conoscenze (atomi) correlate. | VID-001: Conosce e sa usare i principi fondamentali del visual design per organizzare un’interfaccia utente (web, mobile, software). VID-002: Sa scegliere la corretta tipografia: font e typeface. VID-003: Sa disporre gli elementi e i design pattern in pagine o schermate. VID-004: Sa scegliere palette di colori. |
CELLULA | Un insieme di conoscenze (molecole) complesso e autoconsistente. | IND-004: Conosce e sa applicare i principi Lean e in particolare il Lean Product Development. |
ORGANO | Un insieme di insiemi di conoscenze (cellule), non sufficienti a certificare una data professionalità (organismo) ma sufficienti per svolgere una specifica attività complessa. | IND-006: Conosce e sa applicare l’approccio e le tecniche dello Human-centered design IND-007: Conosce e sa applicare l’approccio e le tecniche di Design Thinking |
ORGANISMO | La somma delle conoscenze che determinano una data professionalità a un dato livello di seniority. | UX RESEARCHER ENTRY-LEVEL Codici competenze necessarie: USR-001 USR-002 USR-003 USR-004 USR-005 USE-001 USE-002 LEA-001 USR-011 |
Ora immaginiamo che una persona sia a un buon livello rispetto alla sua dimensione verticale principale, per esempio uno UX Researcher Senior-level all’80%, ma desideri acquisire una competenza orizzontale che gli serve, magari un atomo in un altro dominio. Il sistema dovrà garantire la possibilità di scegliere questa competenza dal database e mostrare la disponibilità di formazione per quell’atomo. Una volta terminata la formazione la persona acquisirà una percentuale, magari l’1%, della dimensione verticale associata a quel dato atomo.
Le persone, letteralmente, possono comporre i learning object organici per progettare il proprio percorso di crescita in maniera verticale e orizzontale e il sistema imparerà nel tempo a proporre suggerimenti e soluzioni personalizzate grazie al ML.
La natura modulare facilita l’aggiornamento. Atomi, molecole, cellule e organi si prestano molto bene all’acquisizione di competenze orizzontali a diversi livelli di complessità. La complessità determinerà la durata dei moduli didattici e la scelta delle modalità di erogazione (completamente online, ibrido ecc.) oltre alla produzione dei materiali didattici più adatti. Per esempio potrebbero esserci atomi che si risolvono in una sessione di un’ora in videoconferenza, o con un video preregistrato. Mentre al crescere della complessità dell’obiettivo formativo cresce anche la complessità logistica e la necessità di affrontare i limiti della formazione a distanza.
Ma come stimolare la partecipazione?
Un marketplace per la collaborazione
Per creare un contesto in cui la collaborazione sia una proprietà emergente (insieme alle competenze nascoste) si può immaginare un marketplace, gestito attraverso un sistema di gamification.
In questo mercato della formazione i learning objects: atomi, molecole, cellule e organi in catalogo sarebbero proposti alle persone in uno spazio digitale condiviso. Se il collega A vuole acquisire la competenza X, che individua nel marketplace, potrà ottenerla normalmente oppure partecipare alla gamification rendendo disponibile agli altri una o più delle sue competenze: in altre parole per ricevere punti nella gamification devi diventare formatore anche tu.
Quindi se io desidero frequentare il corso Z e NON pubblico un mio learning object il corso lo farò lo stesso, ma collezionerò zero punti. Associando al corso che voglio fare un corso che conduco io su un argomento che conosco e che metto a disposizione di tutti acquisterò (n) punti. I learning objects che pubblico per avere punti non sono riutilizzabili. Le competenze più complesse avranno un valore di scambio ovviamente più alto: se pubblico un atomo, avrò pochi punti, se pubblico un organo ne avrò molti di più.
Il cardine di questo approccio è che qualsiasi competenza vale per lo scambio. Nel marketplace non ci sono solo competenze tecniche da scambiare ma anche legate alle passioni e alla cultura.
Se, per esempio, sei un mago dei videogiochi puoi mettere sul mercato questa competenza e usarla per acquistare punti con un corso su “come assemblare un PC per il gaming con meno di duemila euro”. Lo stesso se sei un appassionato di filosofia e decidi di proporre il seminario: “filosofia della mente for dummies”. O se sei brava a parlare in pubblico e offri una serie di incontri sulle “tecniche di public speaking”. E così via.
Sarebbe bello, eh?