Nell’ormai lontanissimo 1997 (all’epoca studiavo svogliatamente psicologia) diedi un esame di criminologia. Avevo scelto il libro Sorvegliare e Punire di Foucault come testo a piacere. Al termine dell’esame il professore mi chiese cosa pensassi del futuro dei sistemi di punizione, delle carceri insomma. Il caso vuole che quello fosse lo stesso anno in cui lavorai per qualche mese come formatore nel carcere della mia città per un progetto di custodia attenuata. In un certo senso, avevo toccato con mano l’argomento. Gli risposi che non vedevo futuro per le carceri. Che non sarebbero semplicemente più servite. A quel punto, con un’espressione divertita, il docente mi chiese di continuare, ma questa è un’altra storia.
Al di fuori dei contesti professionali, nel discorso sull’inclusione, sul pregiudizio e sulla discriminazione, raramente trova spazio il carcere e il rientro nella società dell’ex carcerato. C’è una sorta di tabù rispetto all’outsider, che, per il cittadino medio, sta bene lì dove sta, lontano dagli occhi.
Ho voluto coinvolgere la mia amica Francesca in una chiacchierata, per iniziare ad affrontare questo tema senza pregiudizi. Francesca Bruzzone è Avvocato Penalista a Genova. Subito dopo aver terminato la pratica forense ha aperto uno studio insieme a due amici e colleghi che condividevano l’interesse per la criminologia. L’approccio criminologico, quindi, improntato sul perché si delinque e sulle possibili strade di prevenzione del crimine, ha condizionato il suo lavoro, che spesso si svolge a contatto con persone in sofferenza psichica e sociale. Nel 2018 ha frequentato, presso l’Università di Genova, il Master in Criminologia, che ha concluso discutendo una tesi dal titolo: «Superare il carcere e ricostruire il tessuto sociale. La prospettiva abolizionista ed anarchica». Il tema dello stigma che una detenzione carceraria crea è uno di quelli a cui si è più interessata e che cerca di affrontare ogni giorno nello svolgimento della sua professione.
Nel discorso sull’inclusione non si parla quasi mai delle persone che hanno commesso un errore più o meno grave durante la loro vita e dello stigma che ne deriva. Ci racconti la tua esperienza come avvocato penalista il tuo pensiero sul tema dell’inclusione in questo settore?
Domanda molto complessa, perché coinvolge principi del diritto, concetti sociologici e persino un approccio empatico nei confronti del mondo e dell’altro, che, in questo momento storico, la nostra società mi pare poco propensa a capire e interiorizzare.
Il carcere è presente nel mio quotidiano, ho affrontato il tema della pena carceraria e del suo fallimento nella tesi del master di criminologia ed è un argomento che continua ad angosciarmi e a pormi interrogativi allo stesso tempo.
Tutti commettiamo errori, più o meno gravi, nel corso della nostra vita.
Alcuni di noi (uso volutamente il noi e nel prosieguo cercherò di chiarirne il motivo) commettono errori che rivestono rilevanza penale e sono affrontati dal nostro sistema giuridico attraverso lo strumento del processo penale, il cui esito può consistere in una assoluzione o in una condanna.
Il nostro ordinamento si basa su un principio fondamentale, contenuto nell’art. 27 della Costituzione: la pena non deve essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Ciò significa che, in uno stato di diritto quale è il nostro (a sentire certi discorsi, anche da parte di uomini delle istituzioni, non si direbbe, ma si, lo è!) la società ha diritto di difendersi dal reato comminando una pena, ma la condanna non deve essere fine a se stessa, non deve essere solo punizione e repressione, bensì deve, o almeno dovrebbe essere, un percorso nel quale chi ha sbagliato ha l’opportunità di ripensare alle proprie azioni e trarne insegnamento e occasione di cambiamento.
Il passaggio reato → processo → condanna → carcere non è automatico.
Prima di arrivare alla condanna ed alla detenzione in carcere, l’ordinamento offre alternative.
Ad esempio, in presenza di specifici requisiti, il processo può essere sospeso per effettuare un periodo di volontariato in favore della collettività, all’esito del quale viene pronunciata una sentenza di estinzione del reato, che permette di fatto alla persona di riprendere la propria vita senza macchie sul casellario giudiziale. Oppure una eventuale sentenza di condanna, entro certi limiti, può essere sospesa per un periodo decorso il quale la pena non dovrà più essere scontata. Ancora, la pena può essere scontata in affidamento in prova al servizio sociale, oppure in regime di libertà controllata. Tralascio, per ovvie ragioni, le specificità tecniche ed i requisiti di ognuna di queste figure, ma le menziono per darne una panoramica, seppur molto superficiale.
E allora, dopo tutto questo lungo preambolo, la domanda che resta è: ma, se il nostro ordinamento è così indulgente, se finisci in carcere, davvero te lo meriti, quindi perché dovrei essere compassionevole e comprensivo nei tuoi confronti? Perché non dovrei provare repulsione per te, che volutamente ti sei messo più volte al di fuori delle regole, causando danni, disagi e dolore?
Qui entriamo nel campo più difficile da digerire, perché è la parte che ci mette a confronto con noi stessi, ed è il motivo per cui ho usato il “noi” qualche riga sopra.
Abbiamo tutti bisogno di sentirci buoni, di giustificarci, di pensare che il delinquente, quello che è in carcere, è “altro” da noi. Sì, ok, noi magari abbiamo aperto una veranda dove non potevamo farlo, abbiamo guidato dopo aver bevuto durante l’aperitivo con gli amici, abbiamo ricevuto un pagamento senza fare la fattura, ma insomma, sono peccati veniali!
Chi è in carcere no. Nel pensiero comune chi è in carcere è un ladro, un omicida, un pedofilo, uno stupratore, un usuraio, un rapinatore, uno spacciatore, insomma una pessima persona che deve rimanere rinchiusa ed è meglio se la separiamo da noi e buttiamo via la chiave. Non a caso si sentono invocare pene più severe. Sempre più severe. Sempre di più. Fino a quanto di più? Quanto carcere è abbastanza perché possiamo dirci soddisfatti?
Inizia qui lo stigma, che è un concetto che si articola su più livelli.
Il primo è il pensiero che separa, allontana, giudica senza possibilità di appello o redenzione chi ha sbagliato. Nella società dell’immagine perfetta l’errore non è accettato o perdonato. Lo si percepisce in maniera palpabile non solo nelle opinioni espresse al bar o sui social. Questo atteggiamento mentale viene legittimato ed alimentato anche da persone che ricoprono cariche pubbliche, che per le più svariate motivazioni tendono ad assecondare e tranquillizzare le paure delle persone, quella che oggi si chiama “la pancia”.
Il tema della giustizia è sensibile, tutti ci sentiamo in diritto di parlarne, perché tutti veniamo a contatto con essa: la zia anziana scippata sull’autobus, il furto in casa, il vandalo che ci riga la macchina, ecc. Questi sono i reati di cui il comune cittadino fa esperienza, la cosiddetta criminalità percepita. C’è poi tutta una criminalità fatta di reati contro la Pubblica Amministrazione, contro la Giustizia, reati di indole economica, che ci tocca meno direttamente e nei cui confronti siamo portati ad essere più indulgenti, come se si trattasse di condotte meno gravi o meno nocive.
Ed ecco quindi il secondo livello dello stigma: il differente metro di giudizio adottato per le condotte delittuose. Chi commette reati da colletti bianchi? Per lo più persone mediamente o altamente istruite, che ricoprono ruoli in istituzioni, uffici, imprese, persone che salutano sempre, ci tengono aperto l’ascensore, pagano l’affitto o il mutuo, portano i figli a scuola e a nuoto con i nostri ecc. Sono come noi. E non possono essere pericolosi, perché noi non lo siamo.
Chi, invece, per lo più, commette i reati che noi percepiamo come pericolosi per la nostra sicurezza? Il tossicodipendente, l’immigrato, il sofferente psichico (e in questo caso arriviamo alla assolutamente errata e fuorviante conclusione secondo la quale malattia psichica = persona violenta), il senzatetto, persone che già di per sé consideriamo ai margini e che non ci riguardano.
Questa differenza si ripercuote anche sul percorso giudiziario e su quello che viene dopo.
Nel momento in cui la persona ha scontato la pena e viene pertanto rimessa in libertà, cosa accade? Qual è il suo destino? È un momento molto delicato. Cosa fa la persona in carcere? Si recupera? Come? Ne esce rinnovata o almeno in parte modificata?
Ci sono istituti carcerari che hanno al proprio interno buoni programmi di istruzione e formazione professionale e che riescono a costruire contatti con l’esterno in modo da poter trovare una collocazione lavorativa agli ex detenuti. Tali lodevoli realtà sono comunque sempre troppo poche rispetto alle necessità. Inoltre, per chi esce dal carcere si prospetta spesso il problema abitativo. In assenza di una famiglia o di una rete di sostegno difficilmente una persona che ha un passato carcerario avrà la fiducia del mondo esterno. Si evidenzia qui il grande divario tra italiani e stranieri, tra chi ha delle possibilità e chi no.
Attenzione, per possibilità non intendo solo risorse economiche, ma faccio riferimento ad affetti familiari o amicali, persone che accolgano e che scommettano sul fatto che quella persona sia cambiata o che comunque, pur con tutte le permanenti fragilità ed un rischio di ricaduta, meriti una chance e debba essere sostenuta ed accompagnata in un percorso che garantisca una collocazione all’interno della società, un ruolo nel quale la persona possa riconoscersi ed essere riconosciuta.
Non mi nascondo dietro ad un dito. I principi sono nobili e sacrosanti, ma chi di noi metterebbe a cuor leggero una persona che esce da una carcerazione per furto o rapina o per spaccio di droga ad accudire un proprio familiare? Chi lo assumerebbe nella propria attività? Non condanno chi manifesta le proprie legittime riserve o perplessità.
È pertanto innegabile che occorrano percorsi di reinserimento. Chi non ha strumenti propri deve comunque avere la possibilità di essere avviato ad una vita che gli permetta di fare tutte le cose che riteniamo normali: vivere in una casa, pagare le bollette, comperare vestiti, fare la spesa.
È difficile ed oneroso, me ne rendo conto. Però vorrei offrire uno spunto di riflessione. Qual è l’interesse della società, e quindi il nostro? Immagino che ognuno di noi risponderebbe che ha interesse a vivere in città sicure, nelle quali muoversi liberamente senza paura, in un ambiente rispettato e sano, con servizi funzionanti ecc. La società sicura è quindi quella nella quale tutti gli ingranaggi si muovono fluidamente, sulla base di regole rispettate perché condivise e ritenute valide.
Come raggiungiamo questo livello di sicurezza, che ovviamente non può essere assoluto e perfetto perché siamo esseri umani e perché un grado di criminalità, seppur contenuto, non può essere escluso in assoluto? Credo che il carcere e lo stigma ad esso conseguente non siano la risposta.
Il continuare a pensare che il delinquente è un soggetto dal quale stare lontani, che non cambierà mai, che romperà sempre il patto sul quale si basa la convivenza civile, fa auto-avverare la profezia. Chi, uscito dalla restrizione carceraria, non trova strumenti e possibilità, continuerà a perpetuare i comportamenti che ha tenuto sino a quel momento, a trovare sostegno nelle persone sbagliate che sono però l’humus dal quale trae alimento, solidarietà e dalle quali non è guardato con sospetto, paura e disgusto.
Una delle frasi che spesso si sentono è: «Eh! Ma in carcere stanno bene. Mangiano, dormono, non fanno niente, tanto li manteniamo noi». A parte le obiezioni che potrei avanzare nei confronti di questa affermazione, è vero che il carcere, per quanto folle sia il pensarlo, per certe persone finisce per diventare un meccanismo conosciuto, una comfort zone nella quale hanno imparato a destreggiarsi più che nella vita normale: lì ci sono regole, c’è una gerarchia, ci sono dinamiche che rispondono a determinate logiche e c’è anche la possibilità di assumere un ruolo, una collocazione che, per quanto in maniera per noi perversa, ha un senso ed una utilità.
Fuori? Beh, fuori no. O comunque difficilmente.
Ecco, io credo che l’inclusione sia un obiettivo ancora lontano, che va costruito passo passo con l’educazione, la cultura, la composizione di una sensibilità comune ed un senso di appartenenza ad un unico corpo sociale che non può essere giudicante e respingente, ma deve sapersi fare carico dell’altro. In questo senso credo che il carcere non sia la risposta giusta alla nostra domanda di sicurezza, perché è una lettera scarlatta indelebile, un marchio di infamia che troppo spesso priva chi lo porta della possibilità di andare oltre.
P.S. Nei giorni in cui scrivevo questa risposta, il Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha rilasciato una dichiarazione nella quale afferma che le pene principali devono essere quelle alternative e che il carcere deve rimanere extrema ratio «poiché estremi sono i suoi effetti desocializzanti, dai quali deriva un alto tasso di recidiva» e che «la certezza della pena non deve essere certezza del carcere». Il che mi fa sentire meno sola. Consiglio, peraltro, sul tema un piccolo ma denso libro, scritto proprio da Marta Cartabia e Adolfo Ceretti, dal titolo, Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione, Ed. Bompiani.
Molti dei classici pretesti usati per giustificare pregiudizi e discriminazioni rispetto, per esempio, a etnia, identità sessuale o classe sociale sono stati in passato, e sono ancora, legati a una presunta pericolosità sociale del diverso, dell’outsider. Cosa ne pensi? È ancora così? Quale futuro immagini?
Onestamente ho difficoltà a rispondere a questa domanda. Non perché non sappia cosa dire, ma perché è un ambito veramente sterminato.
Il pregiudizio credo sia connaturato all’essere umano. Tutti tendiamo a guardare gli altri, la loro cultura, le loro abitudini, le loro leggi con i nostri occhi e la nostra esperienza, nella convinzione di essere migliori. È innegabile che noi occidentali in questo siamo maestri, ma il pregiudizio è trasversale, coinvolge tutte le nazionalità e tutti gli ambiti della vita, non solo quello della giustizia.
Per darti un’idea, anni fa, tra gli atti di un fascicolo di cui mi stavo occupando, c’erano anche le trascrizioni di alcune intercettazioni telefoniche. Una conversazione, in particolare, era tra due cittadini rumeni ed uno diceva all’altro che non ci si poteva mischiare con gli albanesi, perché: «sono gente di merda». Questo a dimostrazione del fatto che anche coloro che noi riteniamo appartenenti all’indistinta categoria inferiore degli altri hanno le loro gerarchie, i loro pregiudizi.
Provando a collocare il tema della domanda nel mio ambito, inizio col dire che si, i pretesti del pregiudizio sono classici ma, distorcendo la lettera ed il significato di una frase di Italo Calvino, un classico è qualcosa che non ha mai finito di dire quello che ha da dire quindi si ripropongono sempre uguali. Mi viene in mente il testo di una canzone di Brunori s.a.s.: «Hai notato che gli argomenti / sono sempre più o meno quelli / rubano, sporcano, puzzano e allora / olio di ricino e manganelli».
Le differenze culturali con persone provenienti da altri Paesi ci sono, è innegabile. Un principio molto bello (forse utopistico) sarebbe quello per cui le diverse culture si confrontano, si rispettano, si accolgono, addirittura si lasciano contaminare in un gioioso melting pot. Però ci sono situazioni di fronte alle quali questo non è possibile, perché offendono la nostra sensibilità, il nostro modo di sentire, il nostro senso di cosa è giusto, morale ecc. e agevolano indiscutibilmente il mantenimento dei pregiudizi e degli stereotipi.
Mi riferisco, ad esempio, a pratiche rituali come ad esempio l’infibulazione, oppure l’usanza di dare in spose ragazze molto giovani se non addirittura bambine, o ancora il sistema “educativo” consistente nel far mendicare dei bambini ed istruirli al furto con destrezza. Ecco, tutte queste condotte, che consideriamo immorali e che ci ripugnano, nel nostro sistema sono considerate reato e quindi vengono sanzionate. La cultura, le usanze altrui trovano spazio nel nostro ordinamento solo fino a che non ledano diritti riconosciuti e garantiti, quali quello all’integrità fisica e sessuale, alla libertà, alla salute ecc.
Questa tutela giuridica (sacrosanta, sia chiaro!) rafforza d’altra parte le argomentazioni di chi ritiene che “gli altri” siano selvaggi, che non sarà mai possibile l’integrazione, la condivisione di vita, spazi, diritti. In questo caso possiamo parlare di pregiudizio? La risposta è negativa se ci poniamo di fronte al caso concreto, perché il padre che mutila sessualmente la figlia è oggettivamente un soggetto delinquente, nel senso che commette un reato, delinque; ma se, sulla base di questo episodio singolo ci spingiamo a classificare tutti gli appartenenti a quell’etnia come delinquenti, allora si, perpetuiamo il pregiudizio e lo facciamo nella convinzione che non sia tale, ma che sia un dato oggettivo. Il singolo caso concreto ci dà il destro per estendere la valutazione negativa ad un’intera comunità.
Allargando lo sguardo sulle altre situazioni da te indicate nella domanda, quali ad esempio il dato sessuale o la classe sociale di appartenenza, credo che questo si ricolleghi ad una estrema fragilità della nostra società. Abbiamo dei modelli che ci sono stati prospettati e con i quali siamo cresciuti e, come ho detto precedentemente, viviamo in un mondo che ci spinge all’omologazione e che mal sopporta l’errore, la diversità, la fragilità, quindi tutto ciò che devia dal modello viene visto con fastidio e sospetto, irriso e allontanato.
Confesso di essere molto stupita dal pregiudizio sessuale, che a quanto pare è particolarmente presente nei giovani, che dovrebbero essere quelli più aperti al mondo. Siamo eredi degli antichi romani, nella società greco-romana l’omosessualità e la bisessualità erano normali, dovremmo darle, queste inclinazioni, per normali perché le conosciamo da secoli ed invece è ancora presente il pregiudizio. Anche qui faccio un esempio. Diverse volte mi sono sentita dire da uomini, più e meno giovani, che sarebbero stati in imbarazzo e avrebbero provato fastidio a spogliarsi e fare la doccia in palestra sapendo di avere un omosessuale a fianco. Per amore di precisione, per quella che è la mia personale esperienza, nessuna donna mi ha mai detto una cosa simile. La domanda che mi sorge spontanea è: ma cosa pensi, che un omosessuale non possa trattenere i suoi istinti? O che tutti gli omosessuali maschi siano pronti ad avere rapporti sessuali sempre e con qualunque uomo? Ecco, questo atteggiamento mentale rappresenta secondo me un pregiudizio, uno stigma che affonda le sue radici in un malinteso senso di virilità.
Paradossalmente viviamo in un mondo che mette il sesso ovunque, ne fa prodotto fino a non dare più valore di intimità all’atto sessuale, a privarlo dell’affettività che lo accompagna, eppure sembra avere paura e vergogna del sesso.
Mi chiedi che futuro immagino, sinceramente non lo so. Più che immaginare diciamo che voglio sperare in un futuro in cui si farà maggiore attenzione alla costruzione dell’essere umano, della sua interiorità. L’accettazione dell’altro, la libertà dal pregiudizio, la serenità dello sguardo sul mondo che ci circonda secondo me passano attraverso una solida base culturale, intesa come educazione all’affettività, alla convivenza civile, all’accettazione di sé stessi, delle proprie fragilità, dei propri fallimenti. Occorre che riconosciamo noi stessi negli altri.
Mi rendo conto però che probabilmente molte frustrazioni dipendono dall’insicurezza, anche economica e lavorativa, che da troppo tempo accompagna le nostre vite. Non voglio essere cinica, ma temo che le persone siano meno disposte ad essere benevole ed accoglienti se non hanno una tranquillità che consenta di posare uno sguardo sereno sulla società e le diverse componenti da cui è costituita.
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