Questo articolo dà l’avvio a una serie di interviste a professionisti che stimo e che gravitano attorno al mondo della comunicazione, del design e della tecnologia.
Fabio è innanzitutto un amico da oltre trent’anni, è copywriter dal 1991, direttore creativo dal 2002 e consulente di comunicazione dal gennaio di quest’anno. Ha lavorato in agenzie di network come Saatchi & Saatchi, BDDP e TBWA. È autore del progetto narrativo Traindogs, nato e sviluppatosi sul web, e diventato libro, spettacolo itinerante e mostra.
Negli ultimi vent’anni il mondo dell’advertising è cambiato radicalmente, ci racconti il tuo percorso e, in particolare, il tuo punto di vista sull’evoluzione delle professioni creative in Italia?
Io ho iniziato più di vent’anni fa, sono ventisette tra pochi giorni. E in tutto questo tempo, è cambiato il mondo, ed è cambiato più volte, con un’accelerazione mai vista prima. Di conseguenza, essendo espressione e specchio della società (quasi mai anticipatore, nonostante le velleità, più spesso a rimorchio), è cambiato anche il nostro mestiere. Fra tutti i cambiamenti, me ne vengono in mente due, fondamentali. Il primo riguarda noi che lo facciamo. Il secondo, il modo di farlo.
Io ho iniziato con la macchina da scrivere. Niente computer, ma soprattutto – e per molti anni – niente internet. E se il primo fu un miglioramento tecnico, per noi che non facevamo altro che scrivere, l’avvento del secondo – anche se non subito – fu un vero e proprio stravolgimento.
Avevamo solo la nostra Olivetti Lettera 22, dicevo, e quello che eravamo, era quello che sapevamo. Al massimo, quello che sapevano i colleghi. O qualche amico che però dovevi beccare al fisso (perché non c’erano i cellulari), e non era facile. Niente motori di ricerca, niente wikipedia, niente youtube, niente idee da piluccare qua e là, quando non da copiare, niente scorciatoie. Al massimo qualche annual, o qualche archivio fotografico. Un esempio: se ti veniva in mente una musica, e non l’avevi sotto mano, dovevi andare a comprare il CD, sperando che fosse come ti ricordavi. Le idee nascevano da noi. O ce le avevi, o non ce le avevi. Può suonare presuntuoso, ma chiunque c’era, sa che era così.
Però, allo stesso tempo, era molto più semplice: TV, stampa, radio, affissione. E per chi era un po’ meno fortunato, BTL, POP e direct. Stop.
360° era ancora un angolo giro.
Poi è cambiato tutto. È arrivato internet, che da un certo momento in poi si è chiamato digital. E negli ultimi dieci anni, sono arrivati i social. E per la prima volta, la comunicazione non è più stata unidirezionale. Ed è questa la grande differenza tra allora e oggi, il vero punto di non ritorno.
Oggi tu parli a tutto il mondo in tempo reale. E in tempo reale, tutto il mondo ti può rispondere. Hai la possibilità di stabilire una relazione diretta, costruire giorno per giorno un legame tra il brand e le persone, che così ti possono dire quanto ti amano, quanto apprezzano quello che stai facendo e quanto si riconoscono nei tuoi valori. Può essere bellissimo, vertiginoso.
Ma è un’arma a doppio taglio. Perché le persone, quello che un giorno ti danno, te lo possono togliere il giorno dopo. Non puoi sbagliare, non puoi tradirle. Hai la responsabilità diretta e immediata delle tue azioni. E delle loro reazioni. Puoi finire nella polvere nel giro di qualche minuto. E tutto quello che di buono hai fatto, viene dimenticato. Certo, puoi risollevarti, ma devi essere molto bravo, molto paziente e molto onesto.
Però, il poter entrare in contatto con le persone in modo così diretto e non filtrato, chiamarle per nome, il poter dare e ricevere emozioni prima ancora che suggestioni o informazioni, vale il rischio. Prima non succedeva: c’era solo questa massa indistinta di consumatori che subiva. Ora sono diventati persone, protagoniste e attive. Questa, per me, è la grande rivoluzione – ed evoluzione – degli ultimi anni.
Il mio percorso, riassumendolo in poche righe, è comune a molti della mia generazione. Nasciamo e cresciamo analogici, quando ancora non aveva neanche senso questa parola, e ci ritroviamo – nel pieno della nostra maturità professionale – a dover pensare digitale. Per noi, è un’opportunità. Perché, rispetto a chi è nativo, al netto di capacità tecniche e competenze, non ci siamo immersi fino al collo. Abbiamo sempre lo sguardo obliquo. E un certo distacco dalle cose. E questo, molte volte, può aiutare ad avere una visione d’insieme.
Nel mondo del design digitale assistiamo da anni a una convergenza tra scrittura creativa e social media management. Il copywriter “tradizionale” sta scomparendo dalle agenzie digitali, e, aggiungo io, se ne sente parecchio la mancanza, qual è la tua opinione?
Si parla tanto e troppo spesso di scrittura creativa. La scrittura creativa, di per sé, non è indice di qualità, né tantomeno di efficacia. La scrittura deve essere altro, soprattutto nel digitale. Deve poter incidere. Deve entrare in sintonia con le persone a cui si rivolge. Dev’essere ciò che sono loro. O ciò che vorrebbero essere, ma partendo sempre da quello che sono. Deve creare un terreno comune di condivisione: per linguaggio, codici, rimandi, non detti. Deve dare l’impressione, a chi legge, che sta leggendo proprio la sua storia, e fargli dire ‘ehi, questo sono io, come fai a conoscermi?’.
Nessuno ci legge (e soprattutto ci paga) per quanto scriviamo bene, ma per quanto descriviamo bene. Un’emozione, un desiderio, un incontro, una vita. Il web è nato per scambiare conoscenze, ma si è affermato per un’esigenza ancora più profonda: quella di mettere in contatto chiunque con chiunque altro. Perciò noi che scriviamo, siamo uomini (intesi come razza, non come genere) che raccontiamo storie ad altri uomini. Come nella miglior tradizione orale. Noi parliamo con la scrittura. Per questo, io uso spesso l’espressione ‘parlare digitale’. È un passo in più, decisivo, che marca la differenza tra lo scrivere e il comunicare.
La forza delle immagini nessuno la mette in dubbio. Il giovane di Tien-an-men. Il podio olimpico con i pugni alzati. La ragazzina in fuga dal napalm. L’uomo a testa in giù del WTC. Per queste, e per centinaia di altre immagini che hanno fermato nella memoria un momento storico, non potevano esserci parole altrettanto forti ed emozionanti. Ma se io ti mostro un bacio tra innamorati o una famiglia felice, è difficile che tu provi empatia. Perché quel bacio non lo stai dando tu e quella famiglia, visti tutti i problemi che hai, ti sta anche un po’ sull’anima. Io, quel bacio e quella famiglia, non devo farteli vedere, li devo tirar fuori da dentro di te. Quelle immagini, le devi sentire solo tue. E per far questo, servono le parole. Quelle giuste. Si dice che un’immagine valga più di mille parole. Ma qualche volta, venti parole (o trenta, o cinquanta) valgono più di qualsiasi immagine.
E qui il copywriter che tu hai chiamato tradizionale, tornando alla tua domanda, può venir utile. Quello che certamente sa scrivere, ma che ha letto e vissuto abbastanza per sapere sempre, ed esattamente, a chi scrive. Quello che ascolta, e guarda, e qualche volta capisce, prima di scrivere. Quello che ha sempre come riferimento la realtà, e non le serie TV. Ecco, di quel tipo di copywriter lì, la mancanza, qualche volta, si sente.
In fondo, il design digitale e il copywriting nascono per lo stesso motivo: creare e far vivere esperienze ad altre persone.
Cosa consiglieresti a un giovane che si affaccia oggi al mondo della scrittura creativa?
Tempo fa mi è capitato di vedere il video-manifesto della Goodby, Silverstein & Partners, un’agenzia di San Francisco conosciuta in tutto il mondo per la sua qualità creativa. Proprio per questo motivo, mi ha colpito una frase:
We make art serving capitalism.
(Gli americani non si vergognano delle parole. Sono intellettualmente più onesti di noi).
Ecco, giovane che ti affacci oggi alla scrittura creativa con l’intento di farne una professione. Se scrivi per vivere, ricordati sempre chi ti mette in tavola la cena e perché. Troppo spesso ho visto ambizioni personali prevalere sugli interessi del cliente. Se vuoi sfogare il tuo talento, apriti un blog o trova qualcuno che ti pubblichi. Sai quanti scrittori in Italia campano solo di quello? Ecco, di meno.
Secondo consiglio: leggi, tanto. Scrivi, tanto. Guarda tutto quello che puoi guardare. Ma poi, a un certo punto, chiudi tutto ed esci. Fuori ci sono le persone, fuori ci sono le storie, fuori c’è la vita. Per strada, sull’autobus, al bar, al mercato, dal parrucchiere, in una sala d’attesa, in un centro commerciale. Osserva, ascolta, prendi appunti. Perché è a quelle persone che tu dovrai parlare. Non ai tuoi amici di facebook, o ai tuoi colleghi, o ai forzati dell’happy hour: potrà capitarti, certo, ma sarà un caso.
Terzo: è il consiglio più difficile da mettere in pratica. Ci vogliono anni. E spesso, non bastano. Non farti trattare mai come un parolificio. Cerca di fare la differenza. Tu o un altro non siete la stessa cosa. Fai che non vogliano un copywriter, ma vogliano te. Chi si fa pagare a parola, ha perso in partenza. O ha le bollette da pagare. E allora, va bene così.
L’ultimo consiglio non è il mio, ma è di Stephen King1 :
Per scrivere al meglio delle proprie capacità, è opportuno costruire la propria cassetta degli attrezzi e poi sviluppare i muscoli necessari a portarla con sé.
Quindi, preparati. Non sarà facile. Niente lo è, se lo vuoi fare bene.
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