L’insostenibile stupidità dei moralizzatori di LinkedIn

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e aggiornato il 5 Febbraio 2023

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Questo è un post sarcastico e politicamente scorretto, prima di leggerlo prendi un po’ di Morphine.

Sono iscritto a LinkedIn da quando è nato. Addirittura, al decennale della piattaforma, ricevetti un messaggio di ringraziamento, insieme a tutti gli altri early adopter. Insomma, uso LinkedIn da quando non serviva veramente a un belino1 dato che, all’epoca, i recruiter italiani lavoravano ancora con la penna e il calamaio: «Linke…che?», ti dicevano quando glielo nominavi.

Da sempre, esiste una mitologia attorno a LinkedIn secondo la quale sarebbe un social network in cui si deve parlare SOLO di cose serissime con un tono super professionale, ché altrimenti son guai e le aziende poi mica ti assumono. Queste aziende così choosy che son sempre lì a leggere i tuoi post e a sgomitare per assumere proprio te, ma solo se ti comporti benino. Birichine.

Questa narrazione da cerberi ha generato spontaneamente una razza di pappagalletti livorosi, sorti spontaneamente dalla palude della nullità per bacchettare, con commenti saccenti e un’illusione di superiorità morale, i cattivoni che non seguono le presunte regole della linkedinità.

Il fenomeno, per me, è ancora più irritante di certi post motivazionali tipo Baci Perugina. Oppure del racconto della routine quotidiana (con sveglia alle 3.45, digiuno e trenta km di corsa) dei CEO hipster cripto-nazi di Palo Alto, raccontata da qualche sfigato che crede sul serio che se tu imiti il comportamento di qualcuno la tua vita possa cambiare. Come se farti crescere i baffoni e pettinarti con le bombe ti rendesse Einstein. Vogliamo parlare, poi, della genialità commerciale del life coaching con cui il guru del momento si paga la sua di bella vita, a spese tue, che resti lo sfigato di sempre anche dopo la sessione di leadership e découpage fatta nella capanna sudatoria? E che dire dei sondaggini carini sull’interfaccia A versus l’interfaccia B, che vien voglia di rispondere: «Razza di idiota, progettare interfacce è un lavoro, se vuoi una consulenza paga, pezzente!». Ehm… Scusa, mi sono lasciato prendere la mano. Dicevamo…

I moralizzatori non sono l’unica rottura di scatole, c’è anche la Polizia Grammaticale. Quelli che si concentrano sulla forma perché, evidentemente, non hanno gli strumenti cognitivi per occuparsi della sostanza. Mi è capitato recentemente di scrivere un post di getto in cui mi lamentavo della tendenza del sistema a premiare le persone peggiori (quel giorno una collega me ne aveva nominata un’altra che disprezzo, devi sapere che odio visceralmente arrivisti e brown-nosers, è più forte di me). Diciamo che l’uso della punteggiatura in quel post è stato, per usare un eufemismo, “creativo”. La cosa davvero interessante che ho notato è che il sarcasmo acido sul tema della forma è arrivato esclusivamente da persone che lavorano nel campo della selezione del personale, mentre gli altri hanno commentato, anche dileggiandomi, ma con classe, per questo non ho corretto la forma del post: troppo divertente leggere i moralizzatori darsi forza a vicenda.

Quindi diciamo che le mie colpe, in questo caso, sono state due: aver fatto un post sgrammaticato e aver scritto una sfuriata, uno sfogo, ché su LinkedIn non va mica bene.

Perché penso che i moralizzatori siano degli imbecilli? (ora arriva la parte seriosa, puoi pure saltarla).

Perché questa gente non ha fatto i compiti. Mi riferisco alla complessità della relazione tra tecnologia e comunicazione umana, cioè tra cambiamenti tecnologici e vita sociale. Quando qualcuno si scandalizza perché il modello concettuale di un prodotto non è rispettato dagli utenti mi viene in mente la superficialità del determinismo tecnologico. Io, invece, ho più simpatia per il costruttivismo sociale. La tecnologia è subordinata al modo in cui è usata in uno specifico contesto storico, culturale e sociale. E si evolve di conseguenza. Se ti preoccupi di come un servizio “dovrebbe” essere usato (e cioè affermi implicitamente che è la tecnologia a guidare il comportamento) e non osservi come le persone usano nella realtà una certa tecnologia di comunicazione e quali vantaggi ne traggono, indipendentemente dalla destinazione d’uso originaria, non hai capito nulla né della tecnologia né del comportamento umano. Aggiungerei, inoltre, che soffermarsi sulla sintassi e sulla grammatica in un social media, significa essere inconsapevoli rispetto ai diversi registri linguistici che le persone applicano al contesto, ambientale e tecnologico, in cui avviene la comunicazione.

È chiaro che una tecnologia contiene un messaggio implicito (per esempio, una pistola ne ha uno differente rispetto a una matita) ma è idiota pensare che l’influenza sia unidirezionale. L’impatto che una tecnologia ha su chi la usa è bilanciato dall’impatto che chi la usa ha sulla tecnologia. Anzi, io mi spingerei a dire che il secondo è più importante del primo. Se vuoi, puoi usare una matita per uccidere e una pistola per piantare un chiodo. Il design e le ideologie commerciali che stanno alle spalle di un prodotto o una piattaforma sono solo uno dei fattori da tenere in considerazione.

Quindi la tecnologia non è neutra, ma non lo siamo neppure noi quando la usiamo. Anzi, noi utenti siamo maledettamente di parte e ce ne freghiamo altamente (e giustamente) delle intenzioni del progettista o delle regolette che si è inventata qualche autoproclamata autorità.

Ma l’errore dei moralizzatori va oltre l’incapacità di uscire dalla trappola del determinismo tecnologico. La stessa radice delle loro motivazioni è fallace. Un social network che si occupa di creare una piattaforma di scambio tra recruiter e persone che cercano lavoro, non può basarsi sul preconcetto che tutti i lavoratori siano knowledge workers col completino blu da stupidi funzionali. O, peggio ancora, che le aziende siano così ingenue da bersi il fatto che tu, su LinkedIn, non sei mica la stessa persona che su TikTok è scema come una scimmia ubriaca, vero? Se voi recruiter bacchettate qualcuno per due virgole, o perché scrive delle sue vacanze, o perché si sfoga nei confronti dell’arrivismo (che, comunque, è un tema centrale nelle strutture gerarchiche, ça va sans dire), o, che so, posta un video buffo su LinkedIn, vi state dando degli stupidi da soli.

Negli anni ’90 del secolo scorso (sono vecchio, maledizione) mi capitò di partecipare, come recruiter, a una selezione per animatori turistici e ti assicuro che i parametri canonici per la redazione di un curriculum non avevano nulla a che fare con il tripudio di creatività che la maggior parte dei candidati esprimeva nei pacchi postali che spedivano per promuovere se stessi. Cose che tu, in quanto moralizzatore, avresti censurato perché non conformi alle due sfumature di grigio del tuo modello mentale della vita e del lavoro.

Quindi, da un lato, sbagli di grosso a pensare che siano le persone a doversi adeguare al mezzo di comunicazione e non viceversa e, dall’altro, ti sfugge che, mentre tu ti concentri autoeroticamente sulla forma, il mondo si evolve senza di te.

PS: chissà quante virgole fuori posto ci saranno in questo post.

  1. Termine genovese dai molteplici significati, in funzione di prefissi e suffissi, per esempio a-belin-ato, belin-one, belin-a, ecc., il termine può assumere un significato di bonario intercalare e tanta simpatia, oppure il più volgare insulto. Dipende da come tratti un genovese.