Perché usare la parola “razza” nei questionari ESG è sbagliato

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Chi si occupa di ESG (Environmental, Social e Governance, cioè la valutazione di un’impresa rispetto al suo impatto ambientale, sociale e gestionale) sa che la maggior parte dei questionari che si usano per valutare i comportamenti aziendali, specialmente nella sezione Social, nella quale si concentrano le tematiche di DEI (Diversità, Equità e Inclusione), sono pensati per la cultura americana o, più in generale, anglosassone. È normale, dato che queste prassi nascono in quel contesto (tranne qualche eccezione) e che molti dei fondi di investimento che impongono alle aziende di compilarli sono americani.

Gli americani usano comunemente il termine “razza” sia nei contesti quotidiani sia nella comunicazione istituzionale, e, anche se il dibattito accademico sui termini razza ed etnicità è presente anche lì, se un italiano si trova di fronte un questionario ESG, generalmente dovrà confrontarsi con una traduzione letterale che include parametri molto lontani dalla nostra cultura (o, perlomeno, dalla mia).

Usare il termine “razza” significa associare erroneamente tratti culturali e comportamentali a tratti genetici. È un termine antiscientifico e ha in sé implicazioni negative. Alla base del pensiero razzista c’è la convinzione che il luogo di nascita, il colore della pelle o altri tratti fisici, siano indicatori sufficienti per classificare un gruppo come geneticamente distinto rispetto a un altro, ma le classificazioni razziali sono inadeguate per descrivere la distribuzione della variazione genetica nella nostra specie. In seguito alla sequenziazione del genoma umano è stato possibile dimostrare che la percentuale di variazione genetica umana dovuta alle differenze tra le popolazioni è modesta e gli individui di popolazioni diverse possono essere geneticamente più simili di quelli della stessa popolazione. In altre parole, questo significa che potrebbero esserci maggiori differenze genetiche tra un leghista padano bianco e un altro leghista padano bianco, che tra loro due e un immigrato nero che proviene da un paese dell’Africa.

Il concetto di etnicità, al contrario, indica un vasto gruppo di persone con cultura, lingua, storia, e un insieme di tradizioni condivise. Un primo passo per superare la classificazione razziale è includere l’etnicità nella demografia della diversità. Per affrontare seriamente l’inclusione, però, è sempre necessario considerare l’intersezionalità: due persone di etnia identica, possono avere colore della pelle differente e subire discriminazioni di intensità e carattere diversi (lo stesso vale, per esempio, per il livello socioeconomico: due persone con lo stesso colore della pelle possono essere discriminate a livelli molto differenti in funzione del loro status socioeconomico, e così via) . Per questo quando mappi la diversità in un’azienda se vuoi, come me, eliminare il concetto sbagliato di razza, devi includere quello di appartenenza etnica che andrà però incrociato con il colore della pelle e con tutti gli altri parametri. Tuttavia per misurare il colore della pelle se, da un lato, la classificazione binaria nero/bianco è riduttiva, e non mi convince legare il colore all’origine geografica come fanno gli americani per i quali bianco è una «persona che ha origini da uno dei popoli originari dell’Europa, del Medio Oriente o del Nord Africa» e nero (o afroamericano) è una «persona che ha origini da uno dei gruppi razziali africani nativi dell’Africa», dall’altro sarebbe complicato usare scale cromatiche o “tipi” come quelle di Fitzpatrick o Von Luschan in un sondaggio (molto chiaro o bianco, tipo “celtico”; chiaro o europeo di pelle chiara; chiaro intermedio o europeo di pelle scura; scuro intermedio o pelle olivastra; tipo scuro o “marrone”; tipo molto scuro o “nero”). Forse la soluzione migliore è lasciare che sia la persona che risponde a scegliere l’etichetta del colore della pelle nella quale si riconosce, senza fornire scale predefinite.

La raccolta dei dati relativi alla demografia della diversità in azienda è importantissima non solo per compilare la parte “Social” delle valutazioni ESG: è impossibile concepire strategie di inclusione senza partire dai dati! Purtroppo è molto raro incontrare aziende che abbiano effettuato questo tipo di indagine, specialmente in Italia. Ecco un esempio dei parametri che, secondo me, andrebbero raccolti periodicamente per avere una chiara immagine della diversità in azienda (chiaramente, i dati personali trattati, in conformità con il GDPR, devono essere anonimizzati):

  • Nazionalità (quante persone appartengono a nazionalità diverse da quella dello Stato in cui risiede la sede principale dell’azienda?)
  • Lingua madre (quali lingue sono parlate in azienda oltre quella ufficiale dello Stato in cui risiede la sede principale dell’azienda?)
  • Appartenenza etnica (a quale etnia appartengono le persone? Esempi di etnicità presenti in Italia: italiani, rumeni, albanesi, ucraini, polacchi, arabi, cinesi, filippini, indiani, africani, latino-americani, ecc.)
  • Colore della pelle (qual è il colore della pelle delle persone?)
  • Livello socioeconomico (qual è il livello socioeconomico delle persone, stabilito attraverso parametri come la zona in cui una persona vive, il livello educativo, ecc.?)
  • Religione (a quale religione appartengono le persone? Ricordandosi che anche la persona atea va tutelata)
  • Identità di genere (l’identità di genere è il genere al quale una persona sente di appartenere, è una dimensione profonda, soggettiva. Ti senti donna, uomo, entrambi o senti di non appartenere a nessun genere?)
  • Orientamento sessuale (l’orientamento sessuale è la direzione dell’attrazione sessuale e affettiva. Ti attrae il sesso opposto, lo stesso sesso, entrambi, o nessuno?)
  • Disabilità (quante persone hanno una forma di disabilità sensoriale, motoria o cognitiva? Quante persone hanno una neurodiversità?)

Questo, secondo me, è un punto di partenza obbligatorio per tentare di calare queste certificazioni nel nostro contesto. Spesso, siccome siamo molto provinciali, ci dimentichiamo che Milano non è Los Angeles. Applicare strumenti concepiti in altre culture semplicemente traducendoli, senza un approccio critico, è un esempio di stupidità funzionale: persone intelligenti che lavorano senza chiedersi il perché di ciò che fanno.