Un articolo scritto ascoltando Carry the Ghost di Noah Gundersen.
La legge 4/2004 (o legge Stanca) è la nostra normativa sull’accessibilità digitale. Nell’art. 1 si afferma che: «La Repubblica riconosce e tutela il diritto di ogni persona ad accedere a tutte le fonti di informazione e ai relativi servizi, ivi compresi quelli che si articolano attraverso gli strumenti informatici e telematici». La legge si rivolge in particolare ai siti web e alle app per dispositivi mobili, e, in generale ai servizi realizzati tramite sistemi informatici. Questa legge è tutt’altro che perfetta e ha mostrato in quasi due decenni tutti i suoi difetti, in primis il fatto che non implichi sanzioni importanti per la pubblica amministrazione e che sia stata quindi largamente ignorata dai soggetti principali che avrebbero dovuto applicarla.
Nel periodo successivo all’entrata in vigore iniziai a collaborare come consulente per il gruppo di lavoro che si era occupato della redazione delle regole tecniche della legge. Fu un caso, dovuto al fatto che individuai un errore nelle regole e mi procurai l’indirizzo email di una delle persone che gestiva la questione per il Governo. Dopo un botta e risposta via email durato settimane, questa persona si arrese e mi chiamò a Roma per fare quattro chiacchiere. A volte essere una testa dura paga.
La legge 4/2004 è stata modificata parecchio negli anni. Per esempio, oggi l’enunciato è più inclusivo della prima versione, anche se si potrebbe lavorare sulle lettere accentate con l’apostrofo e la posizione discutibile delle virgole: «Disposizioni per favorire e semplificare l’accesso degli utenti e, in particolare, delle persone con disabilita’ agli strumenti informatici».
In particolare è stato fatto un tentativo per allargarne la portata alle aziende private che vale la pena approfondire, ma per capire gli aspetti critici è necessaria una premessa sulla classificazione standard delle aziende. L’Unione Europea definisce microimprese le aziende con meno di 10 occupati e fatturato o totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro. Le piccole imprese sono quelle con meno di 50 occupati e fatturato o totale di bilancio annuo non superiore a 10 milioni di euro. Quelle medie hanno meno di 250 occupati e fatturato annuo non superiore a 50 milioni o totale di bilancio non superiore a 43 milioni.
L’Istat, nel rapporto annuale del 2020 fa un quadro della situazione in Italia. Per classi di addetti risulta che il 95,1% delle aziende italiane sono microimprese. Le piccole imprese sono il 4,3%. Quelle medie sono lo 0,5%. Mentre le imprese che superano i 250 addetti sono solo lo 0,1%. Questi dati sono rimasti pressoché costanti dal 2011 al 2017. Il Rapporto sulle imprese 2021 conferma sostanzialmente queste proporzioni: nel 2019 in Italia erano attive quasi 4,4 milioni di imprese non agricole con 17,4 milioni di addetti. Oltre il 60% delle imprese aveva un solo addetto (in genere ditte individuali con il titolare lavoratore indipendente) e un ulteriore terzo della popolazione erano microimprese tra i 2 e i 9 addetti; questi due segmenti insieme occupavano circa 7,5 milioni di addetti. Le piccole imprese, tra i 10 e i 49 addetti, erano quasi 200.000 e quelle medie e grandi 28.000, cioè meno dello 0,7%: queste ultime rappresentavano però più di un terzo dell’occupazione e oltre la metà del valore aggiunto prodotto.
Una delle domande più importanti, quando si ragiona su una legge, è quali siano le persone e le organizzazioni costrette a rispettarla. La risposta è scritta abbastanza chiaramente nel comma 1 dell’Art. 3: le pubbliche amministrazioni e pochi altri. Ma a me interessa di più il comma 1bis, che estende l’obbligo alle aziende private e che, nel testo in vigore a dicembre 2022, recita:
1-bis. La presente legge si applica altresi’ ai soggetti giuridici diversi da quelli di cui al comma 1, che offrono servizi al pubblico attraverso siti web o applicazioni mobili, con un fatturato medio, negli ultimi tre anni di attivita’, superiore a ((cinquecento)) milioni di euro.
Nel testo precedente erano addirittura novecento milioni. Cinquecento milioni è sempre una cifra notevole per un’azienda italiana. È chiaro che se hai una media di fatturato del genere non puoi essere una microimpresa o una PMI. Quindi stiamo parlando solo dello 0,1% delle aziende italiane. Anzi, probabilmente solo una piccola frazione di quello 0,1. Secondo i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 2019 le aziende italiane che fatturavano più di 250 milioni erano lo 0,04% del totale. Quindi il legislatore ha scelto di estendere l’obbligo solo a poche aziende davvero molto grandi.
Quando si tenta, lodevolmente, di migliorare una legge estendendone la portata a soggetti che non erano obbligati a rispettarla, forse andrebbe fatta un po’ di ricerca sugli utenti. Per esempio, bisognerebbe chiedersi se, per le persone con disabilità, sia più importante l’impatto dell’accessibilità dei servizi offerti dalle microimprese e dalle PMI rispetto a quelli offerti dalle multinazionali e dalle poche aziende italiane molto grandi. La risposta non è così semplice. Da un lato, la maggioranza degli italiani che non lavora nel settore pubblico lo fa per microimprese e PMI e molte di esse forniscono servizi che, per esempio, riguardano il commercio, il trasporto e gli alberghi. Ma le agenzie e le aziende di software piccole o medie, che realizzano i siti web e le applicazioni mobile per molte PMI, sono fuori da ogni obbligo così come i loro clienti privati. Dall’altro le multinazionali e le aziende molto grandi, che invece rientrano potenzialmente nell’obbligo, occupano solo il 23% dei lavoratori ma sviluppano i sistemi operativi, i software di produttività, gli ecosistemi digitali delle banche e gli e-commerce più importanti. Questo è un tipico esempio di wicked problem.
Comunque, una legge che è ancora priva di sanzioni serie per i dirigenti della pubblica amministrazione ha fatto almeno un passo avanti nei confronti delle aziende molto grandi: l’inosservanza del comma 1-bis può portare a una multa fino al 5% del fatturato e il 5 novembre 2022 è scaduto il termine per adeguarsi. Sarò cinico, ma ritengo molto improbabile che tutte le grandi aziende interessate lo abbiano fatto. In ogni caso non faccio molta fatica a immaginare che alcuni preferiranno pagare una multa anche molto salata piuttosto di investire a lungo termine nella formazione di dirigenti e personale dipendente e nel miglioramento dell’accessibilità dei loro prodotti. Ritengo anche molto improbabile che multe di questa portata saranno mai fatte, ma spero che la realtà mi smentisca, ovviamente. Oltre al fatto che esiste la scappatoia dell’onere sproporzionato, cioè quelle circostanze che rendono possibile evitare di conformarsi a una legge, per esempio a causa dei costi eccessivi rispetto ai benefici. Il costo dell’accessibilità continua ad essere la scusa più gettonata, un evergreen.
È criticabile anche il fatto che la legge non si applichi ai contenuti di extranet o intranet «pubblicati prima del 23 settembre 2019 fino a una loro revisione sostanziale», escludendo di fatto i dipendenti disabili delle aziende che scelgono di non rinnovare la loro intranet.
A noi italiani manca una cultura associativa pragmatica come quella americana, che tutela i propri soci e la società anche attraverso azioni legali collettive. Emblematici i casi della catena Target che nel 2006 pagò sei milioni di dollari per risolvere la causa sull’accessibilità del sito. O la società Parkwood Entertainment dell’artista Beyoncé, citata in giudizio nel 2019 per i problemi di accessibilità del sito beyonce.com. Ma anche la causa del 2012 intentata dalla National Association of the Deaf contro Netflix per la mancanza dei sottotitoli. Quella contro Nike del 2017, Amazon del 2018, Burger King, Fox News, e così via.
Che fare allora? Io credo sia necessario superare questa logica da legulei e provare a sensibilizzare i manager attraverso strade diverse dall’imposizione. Parlo dei manager sia perché hanno il potere di influenzare i comportamenti delle persone che coordinano sia perché, anche quando una cultura inclusiva bottom-up nasce nei team di lavoro, il collo di bottiglia è sempre il management. Non ho ancora visto un’azienda che parli di accessibilità del software fuori dalla retorica del diversity washing. Ma è molto facile sbugiardarli: basta fare un test di accessibilità dei prodotti.
L’European Accessibility Act
Se è vero che in Italia poco si muove sul tema delle norme sull’accessibilità, in Europa qualcosa sta accadendo. Il 17 aprile 2019 l’Unione Europea ha adottato la direttiva 2019/882 che ha lo scopo di rendere più coerenti le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di accessibilità per una serie di prodotti e servizi che saranno immessi sul mercato dopo il 28 giugno 2025. La direttiva indica i requisiti minimi, gli Stati possono ovviamente adottare leggi nazionali che ne estendono la portata. L’Italia ha attuato questa direttiva il 27 maggio 2022 con il decreto legislativo n. 82.
Per quanto riguarda i prodotti, dovranno essere accessibili i computer desktop, portatili, tablet e i relativi sistemi operativi. I terminali di pagamento (per esempio nei negozi e nei ristoranti). I terminali self-service come bancomat, le biglietterie automatiche, le macchine per il check-in e i terminali interattivi che forniscono informazioni (esclusi quelli che sono installati come parti integrate nei veicoli da trasporto, negli aerei, nelle navi e nei veicoli ferroviari). I dispositivi usati per servizi di comunicazione elettronica, come gli smartphone e i tablet in grado di fare chiamate. I dispositivi con capacità interattive che si usano per accedere a servizi televisivi digitali, come le smart TV. I lettori di e-book (e-reader) come Kindle di Amazon.
Sul fronte dei servizi, dovranno essere accessibili quelli di comunicazione elettronica come le chiamate telefoniche, quelle video, gli SMS e tutti i tipi di servizi di email e messaggistica o chat di gruppo. Sono inclusi anche i servizi che forniscono l’accesso a servizi di media audiovisivi, per esempio i siti web e le app per dispositivi mobili di canali TV come RaiPlay e piattaforme di video on-demand come Netflix. Ma anche le guide elettroniche ai programmi dei televisori digitali e dei decoder esterni.
Un’attenzione particolare è stata data ai servizi di trasporto, che, nel decreto italiano, al contrario della direttiva, includono anche quelli urbani, extraurbani e regionali. I fornitori di questi servizi dovranno rendere accessibili i propri siti web e le app per dispositivi mobili; biglietti elettronici e servizi di biglietteria elettronica; la fornitura di informazioni sui servizi di trasporto, comprese le informazioni di viaggio in tempo reale e i terminali self-service interattivi utilizzati per la fornitura di una qualsiasi parte dei servizi di trasporto passeggeri (esclusi quelli che sono installati come parti integrate nei veicoli).
Anche i servizi bancari per i consumatori sono inclusi nella direttiva. Per esempio, il prelievo di denaro, i bonifici, l’online banking, l’apertura di un nuovo conto, i contratti di credito, la ricezione e la trasmissione di ordini relativi a uno o più strumenti finanziari, l’esecuzione di ordini per conto dei clienti, i servizi di pagamento e legati al conto di pagamento e alla moneta elettronica, ecc.
Coerentemente con gli e-reader anche gli e-book dovranno essere accessibili (per esempio rispettando lo standard ePub 3, che include i requisiti di accessibilità) .
Un aspetto molto importante per le persone con disabilità è il commercio elettronico. I siti di e-commerce non accessibili sono una delle barriere digitali più comuni. Molte delle azioni legali collettive che citavo nascono proprio da questo tipo di problemi. I siti web e le app per dispositivi mobili attraverso cui le aziende vendono i loro prodotti dovranno essere accessibili.
Il decreto si applica anche alla raccolta delle comunicazioni effettuate verso il numero unico di emergenza europeo (il 112). Questo significa che le centrali uniche di risposta che ricevono le chiamate e coordinano le risposte dovranno essere in grado di usare voce e testo sincronizzati, incluso il testo in tempo reale (cioè trasmesso istantaneamente nel momento in cui è digitato o creato) o la “conversazione totale”, cioè un servizio multimediale che include simultaneamente video, voce e testo in tempo reale. Per fare questo le tecnologie e le apparecchiature usate dalle centrali uniche di risposta devono essere potenziate con tecnologie basate su Internet Protocol (IP).
Il decreto non si applica a contenuti di siti web e app per dispositivi mobili, ai media temporizzati preregistrati (solo audio, solo video o combinazione audio/video) e ai formati di file per ufficio pubblicati prima del 28 giugno 2025. Inoltre, non si applica a carte e servizi di cartografia, purché le informazioni essenziali di quelle destinate alla navigazione siano fornite in una modalità digitale accessibile. Lo stesso vale per i contenuti di terzi che non sono finanziati, sviluppati o posti sotto il controllo dell’operatore economico interessato (che può essere il produttore, il suo rappresentante autorizzato, l’importatore, il distributore di un prodotto o il fornitore di un servizio). Sono esentati anche siti web e app per dispositivi mobili che sono considerati archivi nel senso che contengono soltanto contenuti che non sono stati aggiornati o rielaborati dopo il 28 giugno 2025.
Se il Ministero dello sviluppo economico accerta che un prodotto non è conforme ai requisiti di accessibilità del decreto, l’operatore economico dovrà adottare le misure correttive entro un termine ragionevole. Se non lo farà il prodotto dovrà essere ritirato dal mercato. Per quanto riguarda i servizi è l’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID) che funge da autorità di vigilanza. Analogamente ai prodotti, se l’AGID accerta che un servizio non è conforme ai requisiti di accessibilità del decreto è concesso un tempo ragionevole al fornitore di servizi per adeguarlo altrimenti il servizio può essere oscurato o l’app per dispositivi mobili ritirata dallo store.
Dal punto di vista delle sanzioni si parla di multe da cinquemila a quarantamila euro per chi contravviene alle disposizioni. Per le grandi aziende si applica in ogni caso anche la sanzione prevista dalla legge 4/2004 (il 5% del fatturato). Mentre chi non ottempera alle disposizioni delle autorità, o non assicura la dovuta collaborazione, riceverà una multa da duemilacinquecento a trentamila euro.
Ci sono scappatoie? Innanzitutto le microimprese che forniscono servizi sono esentate. Questo è un male perché queste aziende sono la stragrande maggioranza e forniscono la maggior parte dei servizi non finanziari. La direttiva, comunque, prevede che gli Stati debbano sviluppare linee guida e strumenti che consentano anche alle microimprese di essere conformi.
Anche per la direttiva e il decreto esiste la scusa del costo. Se la conformità impone un onere sproporzionato l’operatore economico può essere esentato dai requisiti di accessibilità. È esentato anche nel caso in cui applicare i requisiti causasse un cambiamento fondamentale della natura di base del prodotto. Il problema, in questi casi, può essere l’abuso dei concetti di onere sproporzionato e cambiamento della natura del prodotto, soprattutto se basati su un’autovalutazione. Oltre a questo, l’obbligo di implementare l’accessibilità dovrebbe essere incondizionato, come indicato chiaramente dal Comitato sui Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite. Insomma, vedremo come le autorità di vigilanza sapranno gestire i soliti furbetti.
La direttiva, oltre al termine fissato per il 28 giugno 2025, indica altre date fondamentali (sempre a partire dal 28 giugno):
- 2027: scadenza del termine per assicurare l’accessibilità delle comunicazioni al numero unico di emergenza europeo (112).
- 2030: scadenza del termine in cui è concesso usare prodotti non accessibili che erano già in uso prima del 28 giugno 2025.
- 2045: ultima data possibile per l’utilizzo di terminali self-service non accessibili. Questo perché è possibile usare i terminali in uso prima del 28 giugno 2025 fino al termine della loro vita economica ma non oltre vent’anni dall’inizio del loro utilizzo.
C’è un periodo di transizione, quindi. I fornitori di servizi possono continuare a fornire i loro servizi utilizzando prodotti che usavano in modo legittimo prima del 28 giugno 2025 fino al termine del 28 giugno 2030. I contratti di servizi conclusi prima del 28 giugno 2025 possono essere mantenuti invariati fino alla loro scadenza ma per non più di cinque anni da tale data.
La direttiva è un passo avanti notevole ma non è esente da critiche, per esempio il fatto che sia focalizzata essenzialmente su prodotti e servizi digitali e non copra aree come i servizi sanitari, l’istruzione, gli alloggi, i trasporti, i prodotti per la casa (come lavatrici, lavapiatti e frigoriferi), servizi per il turismo, e così via. È limitata ai servizi bancari per i consumatori, mentre dovrebbe essere estesa per consentire alle persone disabili di lavorare nel settore finanziario. Non si occupa di accessibilità urbana, ed è bizzarro dato che un terminale self-service accessibile non ha alcun senso se la persona disabile non riesce ad accedervi per colpa di barriere architettoniche.
Sarà interessante, nel prossimo decennio, monitorare l’attuazione concreta nel nostro paese della direttiva e del decreto.
Quindi, chi ha paura dell’accessibilità digitale? Solo le persone e le aziende disoneste.